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lunedì 30 luglio 2012

CI HO SEMPRE VOLUTO CREDERE

Ciao Alessia,

come tanti giovani italiani ho letto la tua storia e altro non è stato che la conferma di essere in "buona" compagnia, così ho pensato di scriverti.

Mi chiamo Anna, ho 27 anni, romagnola d'origine e sono laureata in Giornalismo e Cultura Editoriale. Scrivere in cosa sono laureata mi fa sempre sorridere un po' perché, da qualche anno a questa parte, quando mi fanno la fatidica domanda "E tu cosa fai?" purtroppo altro non si può fare che rispondere "sono laureata in...", ahinoi, non abbiamo nessuna possibilità di dire che siamo dei professionisti ma solo dei laureati (o in certi casi persino pluri laureati) in qualche cosa che non ci sta dando non solo un lavoro ma nemmeno un modo per vivere. E allora che cosa facciamo? Diciamo "sono laureato/a in...ma al momento sto..." e se Dio vuole diciamo che abbiamo un lavoro temporaneo che ci permette di raccimolare un po' di euro per andare a bere una birra la sera o fare tre giorni di mare a luglio. Ecco cosa siamo diventati. Un popolo di laureati che sopravvive.

Personalmente mi descriverei come una che ci ha voluto credere. La mia situazione economica, a partire dai miei 15 anni, non è stata mai rosea ma, come ripeto, io ci ho sempre voluto credere e, allora, lavorando d'estate durante il Liceo e lavorando tutto l'anno durante l'Università, ho deciso comunque di inseguire il sogno e studiare per diventare una professionista della comunicazione. Ho fatto tutto il percorso completo, il famoso 3+2 che altro non è che un modo molto furbo per rubarci più soldi e l'ho fatto tutto a spese mie, pagando sempre l'intera retta. Sì perché in Italia se un membro della tua famiglia possiede una casa, quella in cui vivi, allora non rientri nella categoria che necessita di un aiuto economico da parte dello Stato perché se hai fame ti mangerai i mobili e se non hai soldi venderai la casa, mi sembra ovvio. Comunque, il lavoro nobilita l'animo, e tra una cosa e l'altra, durante gli anni universitari mi sono pure concessa un Erasmus, due stage (uno non retribuito vicino a casa ed uno a rimborso spese ma a Milano, la città che solo di affitto in doppia ti costa 350 euro al mese e io ne prendevo 300 di rimborso) e pure un tirocinio all'estero tramite la Borsa di Studio Leonardo.

Tirando le somme, ho al mio attivo svariati lavori (promoter, maschera a teatro, bigliettaia, barista, cameriera, impiegata, receptionist, operaia agricola, commessa, paninara) che mi hanno datto da vivere in questi anni, diversi stage formativi che, per fortuna, sono quasi sempre stati davvero formativi e alcune collaborazioni come giornalista/web content editor che mi hanno permesso di entrare nel mondo lavorativo di cui vorrei fare parte ma senza possibilità di un guadagno reale. Leggo ogni giorno di stage/collaborazioni/tirocini non pagati ma, ogni volta, passo oltre o rifiuto io stessa eventuali proposte e, ogni volta che lo faccio, mi sento morire dentro perché penso che forse sto peccando di superbia, che dopo tutto non sono così formata e che magari, facendo qualche sacrificio, potrei riuscire a combinare un lavoro con un tirocinio che poi potrebbe darmi uno sbocco professionale. Però poi penso che io credo nella dignità umana e, per quanto contenuto possa essere, qualunque sforzo lavorativo o prestazione necessita di una retribuzione e allora vado contro il sistema, contro gli amici ingegneri che ti dicono "per me sbagli perché, piuttosto che stare a casa a non fare niente, dopo tutto è meglio fare uno stage" e contro questo (cazzo di) stato italiano che è riuscito persino farci sentire in colpa per i nostri "insuccessi", invece di colpevolizzare se stesso.

Quando ripenso alle mie scelte a volte penso che forse era meglio se, sapendo delle difficoltà economiche e della situazione lavorativa italiana (già palese a mio avviso quando mi sono iscritta all'Università, era il 2004), lasciavo perdere tutto, facevo un corso professionale e diventavo responsabile di reparto in un Trony o una Maison du Monde qualunque. Invece io ho scelto di sognare, ho scelto la mia passione, ho voluto dare ascolto alla mia indole e assecondare quella curiosità che mi ha sempre contraddistinta e che mi diceva che la professione del giornalista o del comunicatore era quella che faceva per me, insomma, ho voluto pensare "forse per me sarà diverso".

Purtruppo non è stato per niente diverso da come lo avevo immaginato e adesso sono stanca. Sono sfiancata dai luoghi comuni, dal fatto che una laurea è diventata un modo per auto penalizzarsi nel mondo del lavoro e dal fatto che tutte quello che ci hanno raccontato era una bugia. Io, come te e come tanti altri ho fatto i compiti a casa: mi sono laureata, ho fatto formazione, ho imparato più lingue e non sono mai stata una bambocciona; ma per cosa? Per decidere di andare all'estero, fare un lavoro di merda, tornare con una lingua migliorata, qualche amico in più su Facebook e un altro anno sulle spalle? Intendiamoci, di esperienze all'estero ne ho fatte e ne vorrei fare ogni giorno della mia vita perché adoro viaggiare, vivere in luoghi stranieri e conoscere nuove persone, ma questa mia caratteristica non deve essere una scusante perché non tutti sono come, non tutti voglio lasciare famiglia, amici e fidanzati per andare a fare il barista a Londra o Sidney, ci sono italiani che, giustamente, voglio nascere, vivere e morire nel loro paese, e sarebbe un loro diritto poterlo fare.

Il mondo politico italiano dice che non dobbiamo farci illusioni, che dobbiamo darci da fare e che siamo noi a dover avere delle idee geniali per sbarcare il lunario e affrontare la crisi, ma se invece di impartire finte perle di saggezza ci parlassero seriamente e ci dicessero "Ragazzi, vi abbiamo preso per il culo e lo abbiamo fatto per anni", non sarebbe un'Italia migliore? Io, almeno, farei pace con il cervello.

Alessia, ti volevo raccontare la mia storia e ho finito per prendere il tuo blog come l'angolo dello psicologo. Ad ogni modo, spero che questa mia e-mail ti sia gradita e che si unisca al coro.

In bocca al lupo per tutto.

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