Oggi, ho il piacere di pubblicare la lettera di un mio caro amico. Mentre leggo le "molte"righe che ci ha regalato ripercorro gli anni trascorsi insieme e le fughe condivise. Un 'interessante riflessione per chi deve ancora trovare la sua strada e il suo posto nel mondo.
«In tempi
come questi la fuga è l'unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare»
[HL]
Io scappo da
una vita.
Ero poco più
d’un adolescente, i capelli ingellati tirati a lucido sotto una fascia -non
l’avessi mai fatto, oggi ne avrei qualcuno in più-, che in guerra perenne
contro il mondo fuggivo regolarmente dalle regole di mia madre. A casa di mio
padre, s’intende. A volte fa comodo
esser figli d’un divorzio.
Eccomi
allora maturando, sebbeme immaturo fin al midollo, a scappare da un percorso
accademico che per me sembrava tracciato
da una vita. Figlio, nipote, pro-nipote d’avvocati, con uno studio ben avviato
che attendeva solo d’esser ereditato. Quale facoltà avrei scelto?
Non-giurisprudenza. Qualunque branca dell’umano scibile che mi consentisse di
evitare la temutissima professione di famiglia. Poco importava se prevedesse uno o più esami di matrice giuridica.
L’importante, agl’occhi di me matricola in fuga, era poter continuare a
scappare.
Economia mi
sembrava un buon compromesso: media difficoltà, piani di studio molto
diversificati a coprire le discipline più disparate, quel tocco di Diritto che
avrebbe fatto contento qualche parente. Ma soprattutto, diceva la leggenda
metropolitana dell’epoca, utile a trovar lavoro. E quando si scappa, pensavo, è
meglio farlo da stipendiati.
Mi iscrissi.
Passano gli
anni della triennale, e con loro gli esami con voti tutto sommato
soddisfacenti. Ma ecco che arriva la più geniale delle strategie di fuga
accademica legalizzata che l’uomo moderno abbia mai concepito: il programma Erasmus.
Per un giovane poco più che ventenne, dalle “belle speranze” e le confusissime
idee sul futuro, era tutto sommato una buona scommessa: un intero anno
all’estero, per la prima volta e completamente solo, una nuova lingua da
imparare, qualche esame in più da portare a casa in modo non sempre del tutto
ortodosso. Finalmente una fuga “condivisa”: i familiari la appoggiano,
emotivamente e finanziariamente, sicchè il fuggitivo può prendersi un anno
sabbatico dai suoi tormenti esistenziali –“mi piace quel che faccio? Cosa ci
faccio quando lo finisco? E se poi non ce la faccio che faccio?”. Da notare l’insistenza con cui in questi
interrogativi compare il verbo “fare” -quel che io chiamo la funzione, la missione di ciascuno di noi
a questo mondo. Qualche millennio fa un po’ di greci più saggi di me l’avevano già
chiamata ἀλήθεια (aletheia, verità). Letteralmente “ciò che non è
coperto da veli”. Svelato.
Sui quanti veli
il mio Erasmus m’abbia aiutato a togliere non mi dilungo in questa sede. Lo
faccio dal giorno in cui ho rimesso piede in patria –mai per restarci troppo a
lungo. Restava però il più grosso e pesante di tutti: quel dover dare un senso
a una scelta accademica mai da nessuno (me in
primis) del tutto compresa, nonchè –soprattutto- dimostrare, a me e a
tutti, di riuscire a cavarci qualcosa di tanto utile quanto la “professione di
famiglia”.
Ancora una
volta un deus ex machina accademico
giunse in mio soccorso nella scena cruciale: la riforma universitaria. Un
qualsiasi neo-laureato del vecchio ordinamento, all’età in cui io finii la mia
triennale, non avrebbe potuto più trastullarsi in enigmatici quesiti
filosofico-professionali –si sarebbe piuttosto, come diciamo qui a Napoli,
messo a vedere quel che doveva fare (il dialetto tradotto perde troppo spesso
la sua efficacia). A me invece, tra i primissimi figli della riforma, fu
concesso un altro biennio di riflessione esistenziale: la laurea specialistica.
La quale laurea, oltre ad essere tutto tranne che specializzante (mentre
alquanto formativa era stata la sorella minore triennale –vizi e virtù del
nostro nuovo ordinamento), portava con sè tutto un nuovo pacchetto di
eccellenti strategie di fuga: stage all’estero per laureandi (programma Erasmus
Placement), ricerca all’estero per la tesi finale, stage all’estero per
laureati (programma Leonardo). Scappai
in tutti i modi che mi furono concessi. Quando non lo feci, fu perchè già avevo
formulato un mio piano di fuga alternativa.
Ma con la
laurea finirono anche le fughe accademiche legalizzate. Poco male, mi dissi -
tra titoli lingue ed esperienze qualcosa di buono sarei riuscito a trovarlo. Non
che avessi tolto il grande “velo”, quello forse s’era inspessito a furia di
tanto riflettere, ma avevo sì gran voglia di cominciare a far qualcosa. O
forse, più semplicemente, di cominciare a vivere di quel che facessi. Qualunque
cosa facessi.
Scelsi dunque
il mestiere del mandante di curricula. O
meglio, di application (forms), dacchè le mie domande di lavoro erano
tutte inesorabilmente dirette all’estero.
Il mandante
di curricula si alza presto al mattino, come qualsiasi altro lavoratore. Forse
un pizzico più tardi, dacchè non ha cartellini da timbrare se non quello della
prima colazione in cucina, e dacchè la distanza più grande che dovrà percorrere
è quella che ne separa il letto dal computer. C’è anche la figura del mandante
di curricula dal letto: colui/lei che
“lavora” fino a tarda sera o sceglie il “turno” di notte, ed inevitabilmente
finisce con l’addormentarsi al computer (questa versione del mandante richiede
un portatile). In questo caso al mattino seguente potrà dormire qualche minuto
in più: nessuna distanza da coprire, casa
e puteca (ancora dal napoletano, stavolta non tradotto) a tutti gli
effetti.
Che lavori
dal letto o dalla scrivania, per prima cosa il mandante di curricula controlla
la propria casella di posta elettronica, in uno stato d’animo che è un misto
tra apatica noia ed improvvisa eccitazione. Entrambe si convertono rapidamente
in frustrazione, quando scopre –o meglio trova conferma di quel di cui già aveva
piena coscienza e cioè- che non ha ricevuto risposte, se non negative, alle
domande inviate nei giorni/mesi precedenti. Le stesse risposte negative sono in
realtà per lui in qualche modo fonte di benessere, o almeno così gli sembra di
ritenere: meglio, si dice, dell’essere completamente ignorati. L’educazione
innanzi a tutto.
Ripresosi
dall’ormai abituale piccola delusione di inizio giornata, il mandante di
curricula pensa e/o si ripete qualche formula rinvigorente per la sua autostima,
indi inizia la sua giornata di lavoro. Per le successive 6-8 ore, intervallate
da molti caffè (ed altrettante sigarette se fumatore) nonchè da una pausa
pranzo di breve/media durata, non farà altro che cercare annunci di lavoro e
–ovviamente- mandare curricula, tendenzialmente accompagnati da lunghe e
ripetitive lettere motivazionali. Comincia di solito con gli annuncia lui più
congeniali e/o più affini al suo profilo, oguno dei quali gli sembra sia stato
scritto per lui ad personam.
Allargherà inevitabilmente la ricerca, fino ad includere annunci che solo
qualche settimana prima gl’erano sembrati improponibili.
I contratti
dei mandanti di curricula sono tutti a tempo indeterminato: non si sa mai
quando scadano.
Io ho
lavorato più volte come mandante di curricula. Tuttora continuo a farlo. Un
paio di volte m’è andata bene: durante il tradizionale rito
d’apertura-posta-elettronica mattutina, i miei occhi increduli si sono
illuminati al ricevere una risposta inaspettatamente positiva. Ritornavano le
belle fughe d’una volta: prima uno stage (retribuito!), chiaramente all’estero,
poi addirittura un contratto, di un anno non rinnovato, in un posto che chiamarlo
estero è un eufemismo. Poi ancora curricula.
Il grande
velo esistenziale è ovviamente rimasto al suo posto, ma forse nel frattanto si
è leggermente assottigliato. Per il momento ho scelto, o meglio mi sono
auto-convinto di dover scegliere, di tentare una carriera nella cooperazione
allo sviluppo, preferbilmente all’interno di un’organizzazione internazionale. Ma
mentre mi obbligavo a scegliere, da quando mi son laureato ho anche lavato
parecchi piatti e servito altrettanti panini. Nulla contro lava-piatti e
servi-panini: a volte c’è più da imparare nella cucina d’un pub che in un
ufficio. Semplicemente, non proprio il tipo d’impiego che credevo m’aspettasse
al termine degli studi.
Nel mio
caso, ad ogni modo, credo che il problema di fondo sia una doppia crisi. A
quella economica esogena, che proprio sembra non volerci dar tregua, se ne aggiunge
una endogena e più profonda, della quale mi reputo unico responsabile: il non
aver ancora saputo del tutto svelare la mia aletheia.
Nonchè l’aver sistematicamente rimandato la svelatura a suon di fughe.
Ne conosco,
di coetanei, che con un pizzico di fortuna ce l’hanno fatta. Come direbbe la
nonna media napoletana, si sono sistemati.
E ci son riusciti perchè hanno votato anima e corpo alla propria passione
–avevano già da tempo compreso qual dovesse essere la loro funzione. Certo hanno saputo attendere, dimostrando pazienza e
cocciuta determinazione, ma alla fine sono stati giustamente premiati. Forse
non vicino casa, forse a costo di dover ricorrere all’ennesima fuga. Ma ce
l’hanno fatta.
Allora
guardiamoci dentro, prima di puntare il dito fuori. Proviamo a togliere con
decisione tutti i veli che ci sono rimasti. Ascoltiamo a pieno le nostre
passioni, e perseguiamole con tutte le energie e gli strumenti di cui siamo
forniti. Iniziamo finalmente a svolgere la nostra funzione.
Ogni crisi esogena,
i libri d’Economia insegnano, è storicamente sempre seguita da una
straordinaria ripresa. Che questa volta stenta ad arrivare, e potrebbe tardare
ancora chissà quanto. Ma ci lascia il tempo di svelare l’aletheiea, di lavare qualche piatto e servire qualche panino.
Nonchè di
diventare bravissimi mandanti di curricula a tempo speriamo determinato. O, se
preferite, fuggitivi di professione.
"El humanista"
0 commenti:
Posta un commento