Sono Viola,
sono affetta da logorrea, grafomania compulsiva che sfogo in un blog
(piccoledonnecresciute.blogspot.com) e sono particolarmente polemica. Sulle
spalle ho ventotto primavere. Sono innamorata del mio uomo e con lui, oltre che
un presente precario, vorrei costruirmi un futuro . “Fosse facile, l’avrei già fatto” avrebbe detto Cecco Angiolieri.
Scrivo per raccontarvi questa storia (simile a molte altre), sperando
in un cambiamento.
Succede che oltre quattro anni fa, ad una ragazza neo laureata suona il
telefono mentre è svenuta sul divano. Risponde di malavoglia, rianimandosi solo
quando sente una voce dall’altra parte che le dice: “Dottoressa? Salve, la
chiamo per conto di XXX. Le interesserebbe un colloquio di lavoro?”.
Succede che dice sì, fa tre
colloqui, una giravolta, un saltello e miracolosamente convince gli esaminatori
che lei, fresca della sua laurea in Economia Aziendale, è proprio quella che
cercano.
E così, comincia il suo (in)finito iter di contratti a tempo
determinato: il primo di tredici mesi (con proroga di tre), poi un mese a casa,
sperando di essere richiamata, poi un altro contratto di quindici mesi per
arrivare, alla fine, alla tanto agognata assunzione a tempo indeterminato in
una di quelle aziende che, vent’anni fa, erano più ambite, che il biglietto
vincente della Lotteria Italia.
Succede poi la ragazza incontra, quando è indeterminatamente
un’impiegata, al distributore del caffè un ragazzo alto e con lo sguardo pulito,
che la colpisce al primo sguardo.
Succede che anche il ragazzo, chissà perché, è colpito da lei e cominciano
a parlare e a guardarsi in modo univoco.
Succede che, complici una bottiglia di vino e una buona cena, si
raccontano un sacco di cose e si piacciono sempre più e cominciano a
frequentarsi quasi ogni giorno, tanto da ritrovarsi innamorati.
Il ragazzo, oltre ad essere bello e gentile, ha alle spalle un percorso
invidiabile: dopo una laurea in Economia con 110/110 e lode, la pubblicazione
della tesi e svariate collaborazioni con il suo relatore, ha vinto il concorso
come ricercatore (senza borsa, ma con contratto per l’insegnamento) in una
prestigiosa università privata.
Peccato che il prestigio dell’università sia soltanto nel nome, nei
famosi studenti (con cognomi noti a chiunque, in quanto figli di deputati,
attori, politici locali), nelle feste che ricalcano quelle che noi giovani
degli anni 80 abbiamo visto nei telefilm, nelle aule multimediali. In pratica,
solo nella forma.
Perché nella sostanza ce n’è poco, di prestigio. Infatti, il ragazzo
non percepirà mai uno stipendio: il pagamento del proprio lavoro sarà sempre
ritardato, eluso, dimenticato, tanto da dover far scrivere da un avvocato, per
avere almeno una parte di quello che gli spetta. Ovviamente, dovrà anche lasciare
il posto, (nonostante venga definito da La Repubblica, in un articolo apposito,
uno dei migliori ricercatori del Paese) perché la dirigenza non ha gradito tale
atteggiamento, senza capire che con molto prestigio ma senza stipendio si vive
male.
Succede che il ragazzo (con il titolo, il dottorato e le pubblicazioni)
venga chiamato dalla stessa azienda della ragazza, per un’offerta (che è sempre
un lusso, di questi tempi, si sa!) di contratto per sostituzione di maternità
in un ramo a lui lontanissimo.
Il ragazzo è volenteroso, s’impegna e questo piace ai suoi capi, tant’è
che, una volta terminato il contratto, gliene offrono un altro (sempre di
sostituzione di maternità, le quali non hanno limiti e possono essere,
potenzialmente, infinite).
Purtroppo però, per accedere a questa nuova posizione (più vicina ai
suoi studi e alle sue esperienze di
ricerca), c’è un piccolo problema di natura burocratica: dato che fra due
contratti a TD c’era (perché ora la legge è cambiata) bisogno di uno stacco di
almeno 21 giorni (altrimenti il contratto dovrebbe essere obbligatoriamente a
tempo indeterminato), l’azienda chiede al ragazzo di licenziarsi.
Si può dire di no ad un datore che ti chiede di rassegnare le
dimissioni, con la promessa verbale di riassumerti quanto prima? Si possono far
valere i propri diritti di lavoratore, dopo una frase spiazzante come “potresti
licenziarti, così potremmo riassumerti prima con un nuovo contratto”?
Non si può, semplicemente, perché queste sono le regole del gioco:
sottostai, perché potresti perdere tutto ancora una volta.
E così, senza la possibilità di rinunciare a tale ricatto e sotto la
bandiera dello “speriamo sia a buon rendere”, il ragazzo si licenzia perdendo
tutti i diritti (come l’eventuale assegno di disoccupazione) che avrebbe se il
suo contratto scadesse regolarmente.
Succede che l’azienda mantiene la promessa e riassume il giovane,
promettendo futura stabilizzazione, lasciando intendere un progetto su di lui,
l’inizio di un percorso e tutti gli orpelli verbali che si usano in questi
casi. Così il ragazzo si butta anima e corpo nella nuova esperienza
professionale, convinto di muoversi in un sentiero che porterà alla tanto
agognata stabilizzazione.
Succede che però la crisi non passa, anzi peggiora, le difficoltà delle
aziende sono sempre maggiori e quella dove lavorano i due giovani, non fa
eccezione. Tant’è che con una circolare aziendale si comunica che le assunzioni
stabilizzanti dei giovani non solo saranno subordinate al pre-pensionamento dei
dipendenti più anziani, ma avranno anche con uno stipendio ridotto del 20%.
Succede che i giovani da stabilizzare siano oltre un centinaio e i
posti poco superiori alla cinquantina e il ragazzo, nonostante la sua
esperienza, i suoi studi e i suoi sacrifici, non sa se rientrerà in quel gruppo
di fortunati e riconfermati.
Né sa (se) dove rientrerà, se sarà sballottato ancora o se verrà
(finalmente) messo in condizione di produrre al meglio. Infatti nessuno più
parla di attenzione la lavoratore, di cercare la persona giusta per il lavoro
giusto, di valorizzare la risorsa: ormai siamo tutte pedine intercambiali e il
tuo studio, il tuo curriculum non vale niente. Siamo solo a lottare per un
posto, uno qualunque, purchè retribuito. Le valide teorie economiche secondo
cui una risorsa (anche se preferisco chiamarla persona) soddisfatta lavora
meglio ed è più produttiva, sembrano dimenticate e vuote. Tanto da rendere ogni
giovane, appena raggiunto l’obiettivo del “posto fisso” già disilluso e
frustrato, come dopo quarant’anni di servizio.
Succede che, sempre più spesso, si smette di chiedersi perché la
richiesta di potersi mettere alla prova in uno specifico settore, venga sempre
disattesa, accettando anche questo come se fosse normale. Perché oggi si sa,
devi solo essere grato di avere un lavoro, pena essere giudicato altezzoso,
irrispettoso o arrivista.
Succede, infine, che i due giovani sono sempre (e ancor di più) innamorati e vivono la loro relazione senza
pensare al domani, ma con una sottile amarezza di sottofondo che non li
abbandona mai, dato che oltre a qualche mese non possono programmare.
Succede che vorrebbero cominciare un progetto insieme, un progetto che
si chiama “famiglia” che, per essere messo in pratica, ha bisogno di un minimo
di stabilità. E, dato che questa stabilità manca, loro rimandano perdendo mesi
e anni, sperando di non pentirsene poi.
Ovviamente, per i politici del
caso che non sanno non conoscono e non lavorano per loro
(come dovrebbero), i due protagonisti di questa storia sono solo dei
bamboccioni, sono due quasi-trentenni ancora dipendenti dai genitori, sono due
bambini che non vogliono crescere.
Peccato che loro, di crescere e
–addirittura- di crescere dei bambini, ne avrebbero voglia e volontà. Ma la volontà non basta.
E i sogni sono talmente stantii da
non essere più nemmeno uno stimolo.
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